Gli interessi locali e personali erano spesso anteposti a quelli generali, per cui il deputato veniva inteso come “l’uomo d’affari dell’elettore e del Comune” e si votava non per l’uomo più onesto e capace.
Emerge, dunque, la questione delicata del rapporto tra rappresentante e rappresentato. La regolamentazione istituzionale fra governanti e governati era, infatti, determinata dalle elezioni che legittimavano i politici nelle propria funzione ad agire per conto degli elettori.
Ciò spiega come in Italia almeno fino alla permanenza del sistema a suffragio ristretto non si formassero veri e propri partiti politici; tanto la Destra che la Sinistra prendevano connotazione compiuta solo ad elezioni avvenute.
Il ceto dirigente dell’Italia liberale si presentava così, per certi versi, come un precario insieme di strati dominanti locali legati da un patto di mutua tolleranza.
Si trattava di un ceto misto: poco liberale e poco borghese, selezionato sulla base di un discrimine patrimoniale e culturale, nella cui identità giocarono un ruolo determinante il marcato esclusivismo del diritto elettorale, la prevalenza della politica basata sulla priorità locale rispetto al generale, la diffusione di pratiche familistico-clientelare e di rapporti paternalistico-differenziali, non solo nel Mezzogiorno agrario ma anche nel nord commerciale; l’assenza, infine, di una elaborazione ideologica rigorosa del liberalismo.
Il forte influsso esercitato poi su di esso dal cattolicesimo incoraggiava un comportamento sociale antindividualistico e per tanti versi spontaneamente illiberale, di intenso spessore gerarchico-paternalistico, specialmente nella società agraria.
Nel decennio di fine secolo, con Crispi, la presenza dello Stato centrale si fece tuttavia sentire più incisivamente nei mondi locali.
Bibliografia
F. De Sanctis, La situazione politica alla metà del 1864 in F. De Sanctis, il Mezzogiorno e lo Stato unitario, a cura di Franco Ferri, Einaudi, Torino 1960.
F. De Sanctis, Gli elettori 1864, in F. De Sanctis.