Raccontava dei panettieri vagabondi come di una sua folle visione di ragazzo, avanti e indietro ogni giorno a servizio della sua “vaporiera”. Lo sferragliare regolare, il calore immondo in ogni stagione e la linea ferrata malandata da sempre avranno acceso le sue più poderose fantasie, mescolandole ai ricordi troppo uguali di ogni giorno.
Arrivavano nottetempo vestiti di tuniche rappezzate, dal quale sporgevano solo gli scarponi pesanti e laceri e accendevano silenziosamente i forni a disposizione dei casellanti e delle loro famiglie. Nessuno osava scacciarli o far loro delle domande. Nessuna traccia certa del loro passaggio.
Solo l’odore di cenere umida sulla pietra refrattaria.
Quando la vaporiera giungeva puntuale al mattino, Minguccio, sbucando dalla cabina, leggeva nella faccia turbata del casellante la visita notturna dei vagabondi. Un cenno d’intesa ed una nota sul suo taccuino e già scompariva fischiando in una nuvola di vapore, manco fosse stato il grande Houdinì.
Tra una palata di carbone e l’altra immaginava il rumore dei passi tra i ciottoli e le traversine. Rami che si spezzano e odore di fumo. L’attesa ed il vapore croccante mescolato al silenzio della notte alta.
Mai riapparvero due volte nello stesso posto, ma, l’ultima volta che li videro fu quella notte straordinaria in cui tutti i forni fumarono contemporaneamente.
Minguccio trasale, facendo esplodere ogni ruga del suo volto di cartapesta: tutti i “santissimi” forni della linea dell’Appennino Dimenticato fumavano nella notte e non un animale, non un uomo, non un insetto osarono contraddire e disturbare l’ultimo grandioso movimento che si compiva.
Scomparvero, e nessuno li vide più. Lo fecero in pacifico silenzio, così come ogni altro atto della loro vagabonda esistenza.
Lui e loro: il carbonaro e i panettieri.
Alle spalle solo un rivolo di fumo.