Memoria del pellegrinaggio alla Madonna di Sanza.
Esistono medicine d’ogni tipo per curare le malattie del corpo e delle mente, ma ce n’è una in particolare, che, se fossi un medico, consiglierei spassionatamente a molti: una capatina a Sanza, in Campania, nella notte tra il 25 e il 26 luglio.
Per riempirsi i polmoni d’aria pura e di una dose di buonumore, basta trovarsi alle prime luci del giorno sul sentiero breccioso in alta quota che porta al santuario della Madonna delle nevi, sul Monte Cervati - “Cerevato” nel dialetto locale-, il più alto picco cilentano, quando un canto alternato di fedeli, uomini e donne, risuona con forza arrivando al cielo.
All’inizio del tragitto c’è una croce conficcata tra i sassi lasciati dai pellegrini nota come “a crocecchia”. Di lì in poi, dopo un pellegrinaggio nella boscaglia iniziato intorno alle 4 di notte, si riprende il respiro e l’aria di festa invade la “muntagnella”.
Che si creda o meno, non si può non essere empaticamente coinvolti dalla forza dirompente di queste donne dalle voci giovani ed acute, di questi uomini, che con cori che a tratti ricordano per vigore quelli da stadio inneggiano a Lei. Né si può non sorridere al passare dei bambini che, petto in fuori e mani in tasca, con il tono e le parole ascoltati dagli adulti dicono soddisfatti: “Pur sta vot’ ce l’amma fatta!”. Hanno ragione d’essere soddisfatti dei propri sforzi. Invece di andare a dormire per svegliarsi l’indomani pronti a trascorrere la giornata estiva giocando per strada, hanno passato la notte camminando lungo i sentieri scoscesi che li hanno portati fin lì, camminando o, forse, correndo, direbbe qualcun altro, per accompagnare Maria. Saranno questi stessi piccoli uomini orgogliosi, “marunnari” imberbi, che, una volta trasportata nuovamente la statua in paese nella notte tra il 4 e il 5 agosto, avranno l’onore e l’onere di portarne in giro la stiva vuota per temprarsi e prepararsi per il giorno in cui, cresciuti, saranno loro a portare Maria su e giù per il Cervati tra gli spari e le grida di sostegno dei compaesani. “S’hanna abituà!”, mi ha detto l’ex-priore della confraternita. Già li vedo caricarsi il peso sulle spalle minute, incitarsi l’un l’altro e scattare esultanti e rossi in volto verso la Chiesa Madre.
Il passaggio del testimone e il ricambio generazionale sono indispensabili perché la tradizione possa preservarsi e rinnovarsi. Senza vigore, senza esultanza, non potrebbe sopravvivere, perché “la tradizione”, scrive Ezra Pound, non è “un mazzo di catene per legarci”. Ai sanzesi non mancano né l’una né l’altra e catene non se ne vedono, altrimenti certo non li si vedrebbe correre così.
“Perché lo fanno?”, ci si può chiedere a guardarli. Me lo sono chiesta più volte. Penso che che ogni risposta stia in Lei. Maria è sacrificio e capacità di sopportare le dure prove di una quotidianità precaria ed incerta. “Piango di lui ciò che mi è tolto. Le braccia magre, la fronte, il volto. Ogni sua vita che vive ancora, che vedo spegnersi ora per ora. [...] Come nel grembo e adesso in croce, ti chiama "amore" questa mia voce. Non fossi stato figlio di Dio, t'avrei ancora per figlio mio”. Sono queste le parole che magistralmente De André in Via della croce lascia cadere dalle sue labbra. Maria è una madre forte e saggia che soffre, cerca e trova risposte alle proprie pene e offre comprensione a chi gliene chieda. E’ rifugiata, costretta a scappare, ed è rifugio, braccia aperte, occhi ospitali, per chi da lei si rechi.
A leggermi mi si potrebbe immaginare diversa da come sono. La verità è che io non credo, ma sono tornata su quella vetta quattro volte con lo stesso compagno. Anche lui, come me, non crede. Ci piace dire che crediamo negli uomini, ma entrambi siamo rimasti rapiti dall’atmosfera che si respira lassù.
Da un lato, di certo, dobbiamo questa malìa ai sanzesi che abbiamo incontrato lungo la strada, persone gioviali ed energiche conosciute nella salite o discese “a cascione” o perché ci hanno offerto un una tazza di caffè ed un pezzo di dolce, indispensabili per reggere il ritmo concitato della festa, o ci sono venuti incontro con un bicchiere di vino, necessario per godersi a pieno l’allegria. Ne apprezzo personalmente l’ospitalità senza fronzoli e la schiettezza, quel loro modo di essere senza giri di parole, “pane al pane, vino al vino”, e al contempo l’estro e la poesia delle loro cape “fresche”, fresche come l’aria delle montagne che li attorniano. Non lo dobbiamo, però, solo a loro, ma anche a Lei, così vicina, così terrena, nonostante la corona che la cinge e le stelle dorate di cui sono trapuntate le sue vesti che più volte tornano nei canti dei fedeli. E’ nel suo passato e in ciò che significa per chi percorra quel sentiero scosceso ed impervio in cui ogni passo pesa sulle ginocchia, in cui ogni pietra è livido dietro l’angolo.
In questo pellegrinaggio che sa di follia, leggo un bisogno grande di umanità, una necessità di condividere il tedio e la sofferenza dell’esistenza. Al termine di un sentiero precario e sfibrante, si cerca una gioia collettiva, condivisa. Da mille anni, forse più.